Estratto del libro

Prefazione


Quando ho cominciato a pensare al soggetto di questo breve libro, non erano ancora avvenuti i tragici fatti di Parigi: le stragi di Charlie Hebdo e – quella successiva – del Bataclan, non avevano ancora sconvolto le nostre vite come sarebbe accaduto in seguito.
Quelli della mia generazione, nati a cavallo tra gli anni ‘Sessanta e ‘Settanta, ricordano ancora abbastanza bene quale fosse il clima in quel periodo nel nostro Paese: non passava giorno senza che giornali e televisioni portassero a conoscenza dell’opinione pubblica l’ennesimo e tragico fatto di sangue legato al terrorismo interno e internazionale.
Sconfitto il terrorismo interno, ridimensionato quello internazionale e attraversato un periodo – gli anni ‘Ottanta-’Novanta – di relativa calma e benessere, il nuovo millennio si è aperto con le stragi dell’undici settembre che, all’improvviso, hanno fatto ripiombare tutti nell’incubo terrorismo.
Un terrorismo nuovo, diverso, contro il quale ci siamo trovati da subito impreparati, e che, almeno all’apparenza, non ha nulla da spartire con il vecchio terrorismo, simile com’è più a una guerra di religione che di ideologia.
In questo libro, ambientato nella Germania di metà anni ‘Ottanta, ho voluto raccontare la storia di Mirka e Joseph, due ragazzi poco più che ventenni che lentamente si avvicinano al mondo dell’estremismo armato, un estremismo che – pur vicino alla sua sconfitta – è ancora capace di provocare morti e dolore in un Paese che, in un periodo di grandi mutamenti geo-politici, si avvia a diventare il leader indiscusso della nuova Europa e una delle prime potenze economiche al mondo.
Una storia dai risvolti umani, dove nei protagonisti le scelte dettate dalle proprie convinzioni politiche si scontreranno con le perplessità morali, i dubbi personali, le angosce che tali scelte hanno causato, fino a stravolgere le loro stesse vite.
Franco Casadidio


L’impronta del diavolo – I protagonisti

Mirka era una bella ragazza di ventitré anni, alta, con lunghi capelli castani che le defluivano dolcemente sulle spalle e incorniciavano un viso rotondo, simmetricamente proporzionato. Gli occhi neri spiccavano su un volto che, anche dopo lunghe giornate estive passate al sole, restava sempre di un pallore lunare costringendola così a ricorrere a massicce dosi di fondotinta per evitare di rassomigliare ad un fantasma più che ad un essere umano.

Joseph non era certo quello che si può definire un bel ragazzo: non molto alto, grassoccio, con folti capelli biondi ricci e un viso perennemente paonazzo, aveva nell’eloquio la sua arma migliore. Era in grado di parlare per ore di politica, economia, giustizia sociale, rivoluzione, senza mai fermarsi, qualche volta rischiando anche di rimanere senza fiato, ma con un tale impeto che chiunque – anche chi non la pensava come lui – non poteva fare a meno di ammirare quelle sue abili doti oratorie unite ad una foga in grado di trascinare anche gli animi più recalcitranti.

La foto che Robert aveva dato loro la sera prima non rendeva giustizia al personaggio che i due si trovavano a seguire; alto non meno di un metro e ottanta, capelli brizzolati, occhi azzurri, fisico asciutto e atletico, un’età apparente intorno ai quaranta, Misha – o come si chiamava veramente – era certamente un bell’uomo, di quelli che non passano inosservati tra il pubblico femminile di ogni età. Elegantissimo nel suo cappotto blu scuro, l’uomo uscì sul piazzale antistante la stazione centrale in cerca di un taxi, usando una sciarpa di lana rossa per proteggersi dal freddo intenso che da qualche giorno imperversava in tutta la Baviera.


La storia

Il tema trattato in questo romanzo è quello del terrorismo.
Nella fattispecie, non il terrorismo i cui tragici e cruenti fatti hanno di recente riempito le pagine di cronaca di tutti i giornali, bensì -in nome dell’autentica passione che l’autore nutre per il mondo tedesco- il terrorismo che ha insanguinato la Germania degli anni ’80 del XX secolo a causa delle azioni eversive della R.A.F.
Questi eventi storici sono ricostruiti con precisione dall’autore, che mostra di conoscere approfonditamente l’argomento; eppure L’impronta del diavolo non vuole essere e non è un saggio sul terrorismo, bensì un libro che intende portare alla luce e far riflettere su aspetti sui quali normalmente non si appunta la nostra attenzione, perché a calamitarla sono invece gli aspetti macroscopici del fenomeno, che si impongono -ed è comprensibile- a causa della drammaticità e dell’efferatezza talora spietata delle azioni compiute: la conta delle vittime, lo spargimento di sangue, la scia di pubblico sgomento, la violazione della normalità dell’esistenza quotidiana della gente comune, il forte e diffuso senso di precarietà, le posizioni dell’opinione pubblica e dei governi, le matrici ideologiche.
Ne “L’impronta del diavolo” tutto questo è sottinteso o, meglio, risulta essere solo un pretesto per far emergere ciò che invece in genere resta sommerso: il “risvolto umano” del terrorismo, inteso come tutto ciò che non è escluso che si celi e che accompagni il concepimento di certi ideali e il conseguente compimento di azioni eversive; un coacervo, insomma, di paure, angosce, dubbi e germi di pentimento che si intrecciano e si scontrano con la consapevolezza pressante delle scelte già operate e della doverosa fedeltà alla causa sposata insieme ai propri “compagni”.
E così la storia di due giovani innamorati, affiliati ad una cellula della R.A.F. che opera a Monaco, diviene occasione per condurre con semplicità, ma in modo efficace l’analisi del dramma interiore che può nascere nel momento in cui un ideale abbracciato e vagheggiato in astratto, in nome di considerazioni politiche e sociali e della fiducia incondizionata in un futuro migliore che appunto l’eversione dovrebbe assicurare, si “traduce in realtà” o meglio si scontra con la realtà. Il che accade a causa della necessaria assunzione di comportamenti che stravolgono la routine di una vita “normale” (muoversi nell’ombra, guardarsi costantemente alle spalle, perdersi nell’anonimato della folla, sentirsi come marionette mosse dai fili di qualche occulto burattinaio, autocondannarsi insomma al sacrificio della propria libertà ai limiti della umana sopportabilità) e soprattutto in virtù del contatto con le ipotetiche vittime di un attentato, delle quali si scopre qualcosa che fino ad ora la mente ottenebrata dalla cieca fedeltà al credo sposato non ha tenuto in minima considerazione: la natura di esseri umani che le vittime condividono con i carnefici.

Citazione da pp. 59-60 “…era innegabile … che … tutti costoro erano potenziali vittime dei terroristi, una sorta di morti viventi in attesa che qualcun altro emettesse una sentenza che poteva anche essere di morte nei loro confronti. Uomini che decidevano di lasciar vivere altri uomini, che si ergevano a giudici implacabili dell’altrui vita senza mostrare, almeno in apparenza, il benché minimo rimorso. Lei no, per lei era diverso; fin da quando aveva ascoltato quel nome, non aveva potuto fare a meno di riflettere su quanto si stava organizzando. Quell’uomo, come gli altri della lista del resto, magari aveva una moglie, dei figli … che la sera lo attendevano a casa di rientro dopo una giornata di lavoro. “Ecco -pensò- noi stiamo decidendo se uccidere un uomo, se toglierlo agli affetti dei suoi familiari che, dopo averlo visto uscire di casa vivo, non lo rivedranno che all’obitorio … E decidiamo tutto questo davanti a un boccale di birra, come se stessimo decidendo cosa fare nel weekend e non se ammazzare o meno un uomo”.

Un risveglio della coscienza, insomma, che getta la protagonista femminile in un vortice di sofferenza e inquietudine crescenti e le fa mettere in discussione anche il proprio rapporto con il giovane al quale è legata sentimentalmente. Un colpo di scena fa poi precipitare gli eventi fino all’epilogo tragico, che però rappresenta forse per la donna l’unica possibilità di riscatto, di rinascita dalle proprie ceneri. E così, quasi paradossalmente, un libro le cui vicende ruotano attorno alla strategia disumana della morte e del terrore, si chiude con uno spiraglio di luce, all’insegna della vittoria del più bello, nobile e umano dei sentimenti: l’amore.

Nel momento in cui ci induce in definitiva a considerare il terrorismo anche da una prospettiva diversa, L’impronta del diavolo fa riflettere il lettore anche sul rapporto esistente tra questo fenomeno e la guerra o, meglio, sulle differenze sostanziali che intercorrono fra di essi:
citazione da p. 66
”E allora? Sai meglio di me che quando si è in guerra non ci si può abbandonare a questi sentimentalismi e poi…”
“In guerra? – proruppe la donna – in guerra dici? Ma in guerra si affrontano uomini che sanno di esserlo, sanno che gli altri sono lì per ucciderli e che, se non spareranno per primi, saranno loro stessi a morire. Questo significa fare la guerra, essere soldati. Noi ammazziamo la gente a tradimento … questo vuol dire essere vigliacchi, non credi?”